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Lyrics & Music Litfiba - 17 Re (1987)

Posted on 2010-08-03




Name:Lyrics & Music Litfiba - 17 Re (1987)
ASIN/ISBN:1157179878
Publisher:EMI
File size:478 Mb
File Size: 478 Mb
Other Info: Genre: Alternative Rock; 1CD; Easy CD-DA Extractor, FLAC, CUE, LOG
   Lyrics & Music Litfiba - 17 Re (1987)

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Litfiba - 17 Re (1987)

Original Release Date: June 1987 | Publisher: EMI | RapidShare - Uploading - HotFile

& 8220;Si inizia con Resta, brano breve e veloce, dall’andamento impetuoso. Il testo è articolato intorno a una strana figura, “regina della pioggia” forte e crudele, che rende il protagonista oscillante “tra orizzonti e vertici” fino a far rimanere solo una parte di lui, “quella più vicina al nulla”. Nichilismo e claustrofobismo a go-go, benvenuti nel viaggio allucinato in “17 re”! Il secondo brano è invece Re del silenzio, un classico dei Litfiba (recentemente ripreso da Piero Pelù in un suo album da solista con risultati alquanto infelici) che rappresenta la continuazione ideale della prima canzone in un’atmosfera resa più tetra dall’eccezionale virtuosismo di Maroccolo e dalla chitarra di Renzulli. L’incomprensione, la solitudine sono i leit motiv di questo piccolo capolavoro (“Ogni parola non ha più peso dell’aria che si confonde in me […] Non chiedo pietà, chiedo di lasciare che tutto passi perché non so più amare”). Ottima la prova vocale di Pelù.

Il brano successivo, Cafè, Mexcal e Rosita, è completamente diverso dai precedenti, a tratti sembra più allegro ma è invece un bozzetto allucinato all’interno di un (im)probabile caffè messicano, con un finale all’insegna di un grottesco cannibalismo (“Fammi amare l’amore, vorrei mangiarti il cuore…Cafè, mexcal e Rosita”). Da non considerare assolutamente un pezzo minore, pregevole il basso di Maroccolo in alcune parti. Si esce dall’ “elettrico cafè” di Rosita ma non da un’atmosfera cupa e nichilista in Vendetta: un brano disperato in un mondo violento (“Vedrò, lo so, centomila altre vendette del sangre…”), finto (“La gente, la gente è aria”), abbandonato da Dio (“Ho conosciuto Dio che giocava con il cielo dimenticando l’aria, il fuoco ed il giorno”). Splendida la chiusura del brano con Renzulli sugli scudi. Brano di un’intensità notevole è Pierrot e la luna, ispirato a una composizione strumentale di Arnold Schonberg (Pierrot lunaire). Pierrot, il poeta malinconico, diviene nel brano una figura angosciata e grottesca, alle prese con un rapporto violento con la luna (“Bianca lebbra di luce che m’attacca nel buio. La mia pelle si spacca e non si riforma più”).

Tango sembrerebbe, ascoltando solo il ritmo, un passaggio più felice ma il testo fa cadere ogni illusione. Anche questo ballo, di solito associato alla passione, è qualcosa di violento, ferino, vendicativo, nichilista (“Non lo invidio, vorrei solo ucciderlo”). Nella sua allucinazione è un brano anche fortemente antimilitarista (“Ma ogni guerra è santa, la mia vita è merda”). Si passa a Come un dio, brano che diventerà una sorta di inno nel successivo, splendido tour che avrà il proprio apice al Tenax di Firenze. Istrionismo di Pelù ai vertici, frasi impressive (“Io sono come Dio e gli uomini li rifarei come ora…Occhi per non vedere, bocche per non parlare, meglio così”), una delle migliori canzoni dell’album. Segue Febbre, ennesima canzone claustrofobica e disperata (e aggiungerei anche ipocondriaca) dell’album tanto da far sembrare impossibile l’uscita da un mondo popolato di fantasmi e ombre. Anche il cuore è divenuto “solo un muscolo impazzito”.

Ma dal tunnel si esce, malgrado tutto. E qui si ha un altro vertice dell’album, Apapaia (ci sarebbe da chiedere a Pelù che si è autoattribuito il testo della canzone: come gli è venuto questo grido così non-sense e al tempo stesso incisivo?), una sorta di summa del pensiero dei rocker fiorentini (“E si può estrarre il cuore anche al più nero assassino ma è più difficile cambiare un’idea”…“E quel sogno sai continua a chiamarmi nella profondità del mare”). Fondamentale per conoscere e amare i Litfiba. Così

“terrena” Apapaia, così elegantemente fuori dal mondo Univers, forse uno dei brani meno convincenti dell’album. Una sorta di pausa in un mondo ideale, dove andare in compagnia, lontano. Ma non è che una fugace, passeggera illusione: la realtà riporta inevitabilmente Sulla Terra e in questa canzone non c’è nemmeno l’impegno propositivo di Apapaia; tradimento e disillusione gli ingredienti di un brano eccezionale come testo e musica (“Come Giuda scappo via, spezzo le catene ho tradito il mio amico…La saggezza è una pazzia che impedisce di vedere, ogni uomo spera di comandare…Bestie in guerra, sulla Terra, sulla Terra”).

Brano inspiegabilmente poco conosciuto ma da annoverare tra i migliori (il migliore?) dell’album è Ballata, la storia di un Icaro di fine Novecento schiacciato in un mondo che non ha barlumi di solidarietà e speranza e in cui non serve nemmeno sognare, perchè anche i sogni sono calpestati (“Ridono di me, delle mie ali, ali di cera”). Brano totalmente diverso, rock puro, è Gira nel mio cerchio, così violento da scuotere l’ascoltatore dopo il dramma della canzone precedente. Pelù “graffia” come non mai, il brano ha qualcosa di misterioso, sembra un’iniziazione di un non precisato rito. Il cantante dei Litfiba è poi irresistibile nella splendida Cane, che ha già nel titolo gran parte dei suoi argomenti: solitudine, emarginazione. “Lasciatemi nell’angolo da me, non riesco più a capire se voglio una carezza o mordere”… “Ululo di notte ai vicoli, pisciando sulle vostre carezze”. Non esistono mezzi termini, è rottura con gli uomini, specie con quelli di potere (non dimentichiamo che siamo nella trilogia).

L’avversione verso il potere si ripercuote anche nei due brani finali, Oro nero e Ferito. Nella prima canzone, ancora attualissima per le varie guerre “sante” in onore/odore del petrolio, in un’atmosfera orientaleggiante che richiama alla lontana l’Istanbul di “Desaparecido”, un uomo si dispera davanti alla distruzione della propria terra (“Madre, danzano i leoni, madre danzano le iene”). Ferito sembra invece un’appendice di “Guerra” del primo album ed è una prima anticipazione del tema degli indiani d’America che sarà affrontato più nello specifico in “Litfiba 3” (“Grande capo bianco dice che noi siamo forti, noi siamo pronti per attaccare”). L’urlo di dolore di Pelù su un tappeto musicale niente male chiude una delle opere rock più sconvolgenti del panorama italiano.

Un disco essenziale, ormai di culto e non solo tra i fan di Pelù, Renzulli & C., l’apice della loro carriera mai più raggiunto e forse irraggiungibile. Una curiosità riguardo al titolo dell’album: “17 re” doveva essere la…diciassettesima canzone dell’album e in effetti il suo testo è incluso all’interno del libretto d’accompagnamento. Non si sa per quale ragione non sia stata effettivamente inclusa ma si sospetta che i “magnifici cinque” la considerassero non all’altezza degli altri brani del disco.

Quindi abbiamo avuto un brano in meno da canticchiare ma forse ne abbiamo guadagnato in omogeneità e in “perfezione” dell’album.
& 8221;


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